22 luglio 2022

Decluttering

Ho preparato due sacchi di roba da dar via, uno di scarpe, borse etc. e l'altro di vestiti. Scarpe  troppo strette che mi avrebbero conferito un'andatura sofferente, borsa non in palette, peccato sia nuova, stivali la cui fantasia pitonata è la riprova che gli acquisti on line non fanno per me ma forse un trans potrebbe gradirli,  poi quella maglia di perline che fa tanto indianina, certo se andassi ancora all'università e avessi 22 anni e non 52.
Poi un paio di gonne che ho acquistato quando ero ingrassata (per i miei standard) non le posso tenere lì che non si sa mai dovessi ingrassare di nuovo...no! Nossignori!
Per contro, jeans, magliette e vestitini di quando pesavo 53, 54 kg, non mi ricordo se mangiassi all'epoca, sicuramente mi muovevo di più perché avevo la mia cagnolina Apua e mille giri a piedi da fare insieme.
Sono indecisa se dare via anche  la borsa da vecchia che ho acquistato lo scorso anno, perché mi ha stufato, si che è una borsa presa per andare a lavorare, quindi ci penseró un po'.
Non mi ci vedo a fare un nuovo anno con una borsa da vecchia, tanto più che ne ho presa una di Vendula London con i saldi, che secondo me andrà benissimo per il prossimo autunno-inverno.
Nel sacco dei vestiti sono finiti pure un paio di bermuda kaki, cos'avevo in testa quel giorno che mi sono comprata dei bermuda kaki?! Ero passata davanti a una fumeria d'oppio?
Qualcosa ho buttato via, ma in questi due sacchi ci sono cose che spero possano avere una nuova vita, gratis,  compreso il vestitino con le spalline sottili che farebbe tanto "figlia dei fiori", ma alla mia etá invece farebbe piuttosto l'effetto " nonna  zia dei fiori".
Poi appena sono negativa ho in programma di andare in un outlet con la mia socia, stavolta pensavamo di andare a Fidenza Village o a Barberino a rifornirci di cose belle!

13 commenti:

Anonimo ha detto...

Decluttering and recluttering then.

(traduzione per chi viene dalla "buona scuola": quindi riordinare e disordinare).

semola ha detto...

... "da dar via" a chi...
... io prima portavo i sacchi di vestiti alla chiesa SS Annunziata a Bassagrande ...
... ora non ritirano più...
... quindi alla fine li ho buttati ...

Sara ha detto...

Se sono vestiti in buone condizioni si trova a chi darli, questi sono vestiti in ottime condizioni, li faccio avere a delle ragazzine.

Mirtillo14 ha detto...

Anch'io ho il mio sacco della roba da dar via , che sto riferendo pian piano con roba che non mi piace e non metto più. Sono cose ancora belle che, spero , a qualcuno possano piacere e andare bene. Inutile che le tenga nell'armadio senza usarle, tanto più che a me, d'estate, piace comprare qualche cosa di nuovo.ogni tanto, mentre in inverno non compro quasi niente. Ciaoo

fracatz ha detto...

ma dai,
non aspettare la negativizzazione
lo shopping si può fare anche solo col pensiero

Anonimo ha detto...

Pensare che una volta si facevano risuolare le scarpe e si mettevano le toppe sui vestiti consumati, si allungavano e si accorciavano, si allargavano e si stringevano, si voltavano i cappotti e cosi via. Filare la lana con l'arcolaio o tessere col telaio non l'ho mai visto fare ma ricordo che c'erano dei venditori che giravano nelle campagne vendendo i "pacchi", che contenevano tra le altre cose delle pezze di tessuto con cui poi le donne cucivano i vestiti. Mia nonna mi raccontava che durante la guerra si recuperavano i paracadute che all'epoca erano di seta, per fare i vestiti da sposa.

Da un estremo all'altro nell'arco della mia vita. Non è strano?

Sara ha detto...

@Anonimo,è tutto cambiato,le nonne lavoravano in casa, nei campie nelle attività di famiglia.

Anonimo ha detto...

Mia nonna, essendo una dei pochi che sapevano leggere e scrivere, lavorava in Comune, già all'epoca, parliamo dell'Italia della Grande Guerra.
Compilava documenti con penna e calamaio in bella calligrafia.

Non credo sia questione di occupazione, è che fino a quando ero bambino non esisteva proprio la possibilità del "consumo" e quindi tutte le cose avevano molto più valore e dovevano durare il più possibile. Per tutti, indifferentemente.

Ne parlavo tempo fa con un amico che ha tre figli, lui gli compra una bicicletta nuova, questi la prendono ci vanno in giro qualche giorno, la scassano e la piantano li per strada.
Il mio amico deve prendere l'auto, andare a recuperare la bicicletta scassata e portarla a riparare, sempre se il figlio la rivuole o invece ne pretende un'altra.

Cose che ai miei tempi erano inconcepibili.
Primo, la bicicletta la tenevi da conto perché ti doveva durare fino alla patente.
Secondo, se la rompevi, dovevi tornare a casa e ti dovevi ingegnare a ripararla o a trovare i soldini per portarla a piedi dal ciclista, il tutto senza fiatare col babbo altrimenti erano guai.

I vestiti, mia mamma portava me e mio fratello sul finire dell'estate a comprare un eskimo (verde o blu), un paio di finte Clarks, un paio di jeans, le matite e i quaderni. Ti dovevano durare fino al Settembre successivo e sennò te li mettevi con le toppe (le finte Clarks con la suola aperta sulla punta scucita dopo il pallone). Siamo andati avanti cosi fino alla Maturità, per dire, ho ancora le foto del Liceo con i jeans e le Clarks. Avevo rottamato il tascapane perché mi sciupava i libri, li portavo legati con l'elastico e volte in un prosaico sacchetto della spesa. Intanto, io e mio fratello dividevamo una stanzetta con un armadio, una sedia e il letto a castello, non c'era nemmeno un tavolino perché non ci stava.

Il telefono a muro con la rotella, sito nell'ingresso.

Un altro pianeta.

Anonimo ha detto...

Torno a dire, il mondo in poco tempo è cambiato in maniera inverosimile.

Facciamo il caso di mio nonno, marito della nonna sopracitata. Non mi raccontava niente della sua vita oppure mi raccontava un sacco di balle. Da bambino mi aveva convinto che era un eroe di guerra (la seconda, nella prima era ragazzo) e mi mostrava delle patacche dicendomi che erano le sue medaglie. In realtà non ha nemmeno fatto il militare perché inizialmente troppo vecchio per la leva e poi si era imboscato con la scusa che era necessario allo sforzo bellico, dato che dirigeva i cantieri di bonifica in giro per l'Italia. Giocavamo a carte e vinceva sempre perché le aveva segnate.

Comunque, da quello che ho saputo poi, il bisnonno suo babbo era funzionario scolastico, forse Provveditore e quindi parte della borghesia milanese, tanto che partecipò alla lottizzazione della costa romagnola e si fece costruire la palazzina liberty sulla spiaggia a Milano Marittima. Poi demolita dai Tedeschi, perché era vuota e stava tra i piedi di una postazione d'artiglieria, sfiga. Eppure, d'estate portavano mio nonno a Molina, paese di due case due sopra il lago di Como, lato lecchese e lo lasciavano alle cure di una famiglia di contadini del luogo. Mio nonno viveva come un selvaggio per dei mesi senza nessun contatto con la famiglia. Mai saputo cosa facesse tutto il tempo a Molina da solo. In un'epoca senza TV, senza telefono, senza automobili, senza nulla. Forse il contadino lo metteva al lavoro, forse gli insegnava qualcosa, boh.

Poi credo in collegio, si diplomò geometra, che all'epoca era un titolone e trovo lavoro presso una società di ingegneria tipo Micoperi. Lo mandavano appunto in giro per sovraintendere alla bonifica. Si era comprato una delle prime motociclette in Italia e conobbe mia nonna entrando in paese come Marlon Brando, collo zuccotto di sughero in testa, su modello da aviatore dell'epoca, baffoni da Pancho Villa e giacca di pelle.

Pronti via, siccome poi doveva girare per campagne desolate, aveva il problema di come fare frequentare la scuola ai figli. Mise mio babbo a pensione da una famiglia lontano da casa quindi anche lui boh, si aveva un tetto sopra la testa, andava a scuola ma cosa facesse nessuno lo sapeva, arrivavano forse dei rapporti saltuari e ogni tanto andavano a trovarlo, chissà. L'alternativa dell'epoca era ancora il collegio. Quei posti che fabbricano i Lapo.

Mettici due Guerre Mondiali una dietro l'altra, famiglie disperse, fame, morte, questo per dire che poi avere a che fare con questi nonni e questi babbi non era facile, cioè era facile per un verso dato che tenevano le distanze, meno facile per un altro perché non sapevano come avere un rapporto coi figli.

I babbi post-sessantotto sono coetanei dei figli, solo con più rotture di scatole. Diceva sempre l'amico delle biciclette "se mio figlio vuole farsi il tatuaggio, perché gli devo dire di no?". Poi paga al figlio minorenne l'albergo a Venezia cosi ci può andare con la fidanzatina. Altra roba che ai miei tempi sarebbe stata fantascienza, mio padre al massimo finanziava una pizza e una cocacola e mi sa che è anche un tantino illegale, proprio perché il mondo è cambiato troppo velocemente.

Nuvola ha detto...

Eh, anche io (per altri motivi) sono giù a catalogare/smistare/buttare abiti e varie altre cose che impegnano casa.

Un appunto: ma cosa sono le Clark? Mi sa che io sono proprio campagnola!

Dai, buona guarigione :)

Anonimo ha detto...

Cito:

"C. and J. Clark International Ltd, ditta meglio nota come Clarks, è una manifattura britannica di calzature.

La sede è a Street, Somerset in Inghilterra.

La ditta fu fondata nel 1825 dai fratelli Cyrus e James Clark. L'espansione commerciale l'ha trasformata nel tempo in una marca globale di calzature che opera su molti mercati, come Stati Uniti d'America, Europa, Medio Oriente, Giappone.

Il successo presso il grande pubblico risale agli anni 1960 quando la cultura di massa del tempo fece diventare un "must" il modello più famoso dell'azienda calzaturiera: le "Desert Boots", disegnate ispirandosi alle scarpe egiziane in vendita a Il Cairo, leggere e resistenti per le temperature africane."

Ora, immaginarsi prego il me ragazzino che andava a scuola sotto la neve o la pioggia della periferia con un paio di scarponcini da deserto (finti, imitazione), quindi adattissimi, che spesso avevano la punta scucita per via dei calci al pallone. Eppure, come i fanti del Piave, tacere bisognava e andare avanti.

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Nuvola ha detto...

Ah, ma erano quelle le Clarks?

Comunque, mia mamma non me le ha mai comprate, nè in campagna da noi andavano... insomma, a Milano è un altro mondo, ma anche nella rustica e poco modaiola campagna si viveva bene senza sapere cosa erano le Clarks.

Anonimo ha detto...

Io non ero bambino in Milano, non ero figlio di Moratti, mia mamma mi comprava le scarpe alla bancarella del mercato o nel negozietto di quartiere, IMITAZIONI delle Clarks vere. Dal suo punto di vista lo posso capire, erano scarpe che dovevano durare meno di un anno. Ho notato che le calzature per i bimbi sono tecnicamente molto carenti ma andrebbero studiate meglio perché sono loro che saltano nei fossi o danno calci al pallone. Comunque all'epoca, nel mio mondo, era tutto "povero", quindi quello passava il convento. Ho avuto anche le mitiche Tepa Sport, alternativa autarchica alle All Stars e alle Adidas, già citate da Elio, quando Catoblepa morente le lascia in eredità a Supergiovane. Mi sembra di ricordare che avessero una suola con un rilievo particolare a "pippolini" contrapposti.